Quando nel 1949, dopo quattro anni di guerra civile, venne fondata la Repubblica popolare cinese, il discorso fatto a Yan’an da Mao venne generalizzato divenendo parte essenziale nell’educazione della gente.
Pari importanza dava il nuovo governo sia al teatro tradizionale sia a quello moderno purché consoni entrambi alle nuove direttive.
Mao stesso non caldeggiava la fine del teatro classico, in quanto “non serve disconoscere il passato ma piuttosto è utile comprenderlo ai fini del presente”; negli anni cinquanta e sessanta si susseguirono così vari convegni e festival sull’opera di Pechino riformata, in abiti moderni, su temi contemporanei, “riletture” di testi classici con finalità rivoluzionarie, oltre a una serie di modifiche e innovazioni formali e artistiche. Ai due generi comunque si dava pari importanza e la ricerca proseguiva su due fronti.
Grazie alle nuove norme istituzionali, teatri e compagnie vennero statalizzati e, per la prima volta nella storia, l’attore, da sempre emarginato, acquisì una propria dignità e un suo ruolo nella società.
Inoltre, conseguenza anche questa degli stretti rapporti che la Cina intratteneva con l’Unione Sovietica fu l’importazione del modello e delle esperienze del Teatro d’arte di Mosca e della scuola di recitazione basata sul metodo Stanislavskij, cioè dell’identificazione dell’attore con il personaggio, concezione molto lontana dallo stile tradizionale cinese, che non da tutti fu accolta (fig.1).
